
9 storie luminose (in cui il bene è il male)
di Jo Güstin
Il ramo e la foglie Editore
BILITA MPASH O LA COMPASSIONE DELLA LUCE
(da miti e leggende del Camerun)
Si narra che il dio Bayo Ivyo, portatore del buio e padrone delle acque scure, avesse deciso di oscurare il mondo – creazione del padre supremo Wang’Ilonga – perché consumato dalla gelosia per la bellezza che il genitore aveva creato e per non doverlo vedere tutti i giorni. Radunò quindi tutte le nuvole esistenti proprio al suo cospetto, nella terra dove era stato esiliato, l’Africa, e coprì con un manto nebuloso e funereo tutta la terra e gli uomini. Coperti da questa coltre, gli esseri umani – privati della luce e di chiunque potesse guidarli sulla retta via – iniziarono ad impazzire, ma nessuno poteva vederli. Wang’Ilonga all’epoca dormiva un sonno profondissimo, ancora affaticato dalla creazione del mondo.
Dunque iniziarono i conflitti tra i villaggi, poi tra le città più grandi, infine divennero guerra; uomini e donne imparavano ora l’arte della spada e del pugnale, del fucile, imparavano a far scorrere il sangue. I bambini venivano rapiti per diventare uccisori, le bambine sparivano, per diventare qualcosa di innominabile. Tutti gli animali venivano sacrificati per qualche divinità inventata, spesso incarnata da altri uomini, quelli più furbi, più forti, quelli che possedevano grandi macchine o armi più potenti. Bayo Ivyo poteva vedere tutto grazie agli occhi delle nuvole e alla voce delle acque stagnanti, ed era soddisfatto di quanto stava accadendo. Voleva solo coprire le accecanti meraviglie create da suo padre, ma non si sarebbe mai aspettato un risultato così affascinante. Non aveva solo rubato la luce, aveva corrotto gli uomini, aveva rubato l’umanità.
Accadde poi che Ibeji, il bambino-stregone, arrivato ormai alla veneranda età di sei anni, non riusciva più a sopportare tutto lo strazio della terra e iniziò a pregare. Invocò dunque il supremo Wang’Ilonga, cercando di svegliarlo dal suo sonno eterno. Pregò per tanto tempo quanti erano i suoi anni di vita, in ginocchio e con il capo chino, affondando i palmi nel fango, che lo stesso Dio Creatore aveva plasmato.
L’ultimo giorno del corrispettivo dei suoi anni, Ibeji, singhiozzando e, senza aver terminato l’ultimo canto, morì.
Una fioca luce uscì dalla sua bocca, una sfera luminosa che conteneva le ultime parole della sua preghiera, quella che non aveva potuto lanciare nel cielo nero. Wang’Ilonga fu raggiunto da quella piccola luminescenza che, come fosse fatta di sapone, scoppiò davanti al naso del dio. Egli dunque si svegliò, sentendo quell’ultima melodia di sofferenza.
Fu così che, alzatosi finalmente in piedi. Con i suoi occhi che tutto vedono, scrutò oltre le nuvole nere e, piangendo anche lui per le nefandezze compiute da suo figlio Bayo Ivyo, si adirò come mai aveva fatto. Cominciò a divorare le catene che imprigionavano le bambine rese schiave, ma ogni volta ne nascevano di nuove, come serpenti dalle mille teste e dalle mille code, e più ne lacerava con i suoi denti affilati, più le diaboliche serpi di moltiplicavano; decise allora sciogliere tutti i metalli, per distruggere tutti i fucili e i coltelli, ma gli uomini avevano imparato ad estrarre i minerali e a forgiarli, così potevano continuare a creare sempre nuovi strumenti di morte; Wang’Ilonga allora guardò nel cuore degli uomini e vide che il loro sangue era nero, era sporco, e capì che erano stati corrotti fin dentro le viscere. Espirò intensamente, risucchiando tutto il sangue da ogni persona vivente, purificandolo nel suo stomaco santo e divino, per poi risputarlo dentro i corpi delle sue amate creature. Ma quello, non appena toccava gli organi ormai infettati, tornava a macchiarsi e a degenerare, tornando nero e oscuro.
Wang’Ilonga, resosi conto impotente anche lui di fronte a una corruzione così radicata, cominciò a urlare, dissipando la coltre buia e facendo nuovamente splendere la luce del sole sulla terra. Gli uomini rimasero a bocca aperta e tornarono a guardare il cielo, con le lacrime che gli rigavano le guance. Dall’incontro delle invocazioni di perdono e i raggi del sole, nacque Bilita Mpash, Colei che evoca i sogni luminosi, nei quali tutto è perdonato e dimenticato e che sarebbe rimasta seduta tra le nuvole, osservando e lasciandosi osservare.
Ormai gli uomini avevano imparato il male e non sarebbe più stato possibile liberarli del tutto. Wang’Ilonga però, pur se rassegnato, si rallegrò: aveva ricordato loro che la luce si può sempre ritrovare e che essa splende su tutto e su tutti, sul bene e sul male.
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La scrittura di Jo Gustin è ombra e luce, bianco e nero, bene e male. Queste 9 storie luminose sono racconti che conservano lo spirito di Bayo Ivyo e di Bilita Mpash, portano oscurità e illuminazione; bisogna arrivare fino in fondo, è necessario addentrarsi tra le nuvole nere e lasciarsi trasportare dalla sua potente capacità evocativa e solo così riuscire a dissipare l’oscurità che permea la storia degli uomini (di TUTTI gli uomini). Güstin ci svela un Camerun che non conosciamo – se mai ne abbiamo davvero conosciuto uno – raccontandoci tutti i risvolti di una società che ci appare distante dalla nostra ma che, in realtà, è perfettamente identica a quella che viviamo ogni giorno. Non cambia nulla, non c’è niente di diverso: viviamo anche noi una fitta nebbia sotto la quale si realizzano gli accadimenti più malevoli e deviati, ma anche atti di struggente compassione, d’amore, di gentilezza.
Quindi la penna della Güstin non è come un pugno nello stomaco, piuttosto un elegante doppio filo che penetra lentamente e con movimenti armoniosi, sincronizzati e sofisticati e non trova ostacoli questa lama, perché il suo narrare è al contempo preparare le carni, frollarle secondo una tradizione magica, un rito ancestrale che trasforma il corpo in una materia più tenera, plasmabile, penetrabile. Poi, invisibile, trafigge.
È senza dubbio – anche – un viaggio d’immersione, un sonno senza sogni nei quali fluttuare. Non c’è spazio, tra i suoi racconti, per infatuazioni oniriche o incubi a buon mercato, c’è una sconosciuta e cruda realtà che si veste a festache travolge con storie avide e pulsanti e che sanno risucchiare il mondo intorno.
Perché queste 9 storie luminose si prendono tutto, l’aria e il respiro, la luce e il buio, la primavera e l’autunno, il brusio tra la vegetazione, l’abbaiare dei cani, il rumore dei fornelli, plasmando una realtà disincantata e impietosa, ma che nasconde tra le sue pieghe una forte, febbrile, disperata vitalità.
Un fendente, in effetti, mi pare la metafora più appropriata, perché un pugno di norma lascia un livido temporaneo, mentre una vera lama, al contrario, incide una cicatrice indelebile.
La scrittura di Jo Güstin è tutto questo.
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